Utopie Ubique. Il saggio di Massimo Canevacci Ribeiro

In risposta a UTopia (1), il progetto che La Cura ha appena lanciato a Matera celebrando i 500 anni dalla pubblicazione dell’omonimo libro di Tommaso Moro, il prof. Massimo Canevacci Ribeiro ci ha inviato un suo recente saggio sul tema delle utopie ubique.

Con nostro grandissimo piacere il professore ha acconsentito a pubblicare il saggio sul sito della Cura.

Lo consideriamo un approfondimento del progetto UTopia e una nuova risorsa che possiamo condividere con tutti, per capire il senso (e il ruolo) di “feticci diasporici, sintomatici e indisciplinati”, e come due concetti teoricamente contrapposti quali “utopia” e “ubiquità” possono in realtà toccarsi e contaminarsi.

Massimo Canevacci Ribeiro

Massimo Canevacci Ribeiro

Buona lettura.

Nota (1): Per un racconto del progetto è possibile leggere il reportage “UTopia. Utopie ubique interconnettive a Matera

UTOPIE UBIQUE

Composizione sintomatica per feticci diasporici, impuri, indisciplinati

di Massimo Canevacci Ribeiro

“Personalizzazione della serie. Questo tema è in egual misura un soggetto politico, tocca il contenuto delle libertà, il diritto alla differenza. In generale, come gli individui sono liberi di accettare la loro diversità, anche gli oggetti possono farlo. E’ per questo che gli oggetti diverranno un giorno liberi di assumere la loro forma, il loro colore, la loro espressione o il loro messaggio, in altre parole la loro diversità”

Gaetano Pesce

Premessa

Questo saggio esplora le affinità divergenti tra utopia e ubiquità. Se il primo concetto inventa un luogo inesistente e ideale, il secondo espande in ogni luogo la presenza di un ente in genere divino e controllante. Tra l’essere in nessun luogo e in tutti i luoghi si muove l’innesto attuale di potenziali utopie ubique grazie alla diffusione della comunicazione digitale e dell’individualità movimentata.

Il concetto di utopia oscilla nel tempo occidentale e cambia di significato nei diversi contesti storici, per cui tentare di fermare il suo significato possibile è alquanto arduo. Il metodo che vorrei perseguire è quello di elaborare una costellazione temporanea, costituita da concetti in movimento che possano dare il senso dell’utopia ubiqua: impuro, indisciplinato, feticista, diasporico.

Prima di elaborare questa costellazione, vorrei ricordare che utopia nasce per negare (“ou”) i luoghi storicamente conosciuti quando vari navigatori iniziavano a disorientare lo spazio e a incontrare culture radicalmente diverse. Per questo sottolineare la data di pubblicazione del libro di Tommaso Moro significa focalizzare il contesto storico-culturale della nascente modernità: 1492-1516, cioé solo un ventennio dopo il cosiddetto descubrimento delle Americhe. Il viaggio avventuroso e la scoperta dell’ ignoto sono costitutivi di tale fase. Ma non solo.

Inizia già da allora il conflitto tra il viaggiatore nell’esperienza e il sedentario nella scrittura. Moro da fermo inventa il nome Utopia; Vespucci navigando dà il nome America.

Il vagare senza una meta precisa fu giá premessa del romanzo moderno. Nel Decamerone, infatti, Boccaccio designa i suoi eroi come vaganti: “assai vagati siamo”, in cui il toscano usa la forma passiva del vagare, poi (purtroppo) caduta in disuso nell´italiano. L’abbandonarsi all´esperienza del vagare si differenzia dal viaggiare, che in genere ha una meta, mentre il vagare é senza uno scopo preciso: lo scopo sta nel perdersi, nell´abbandonarsi al piacere di essere vagati. Il contesto materiale del viaggio in quanto vagare definisce l’emergere del concetto dell’utopia. Solo attraverso la scoperta dell´altro non tanto straniero quanto radicalmente estraneo agli stili di vita conosciuti si puó inventare un modello familiare potenzialmente altro.

Per Moro l´altro non é un selvaggio da civilizzare, convertire o sterminare, bensí una premessa per decifrare le potenzialitá felici (eutopia) interne alla cultura dello scrittore e dei suoi innumerevoli lettori.

Così il sedentario inventa un luogo irreale che, proprio per la sua irrealtà, viene percepito come lo spazio più concreto che si possa immaginare. Per lui, la centralità utopica dell´agricoltura deriva appunto dalle notizie ancora fantasiose sulle condizioni delle popolazioni “native” che vivevano “secondo natura”. Ed è noto che furono i gesuiti a rimanere non solo affascinati quanto a organizzare concretamente la loro utopia in quella vasta area nell’odierno Paraguay che ancora oggi si chiama missiones. E le missioni furono appunto utopie concrete almeno fino alla loro cacciata.

La premessa finisce qui: il viaggio concreto definisce l´utopia immaginaria. Solo viaggiando negli spazi sconosciuti si puó trovare l´ignoto in quanto fascinoso e perturbante.

Il viaggiare e il viaggiarsi sono costitutivi di quella che diverrá utopia. Eppure è la scrittura sedentaria che ne elabora la visione. E la fissa… Per me, le utopie ubique si muovono nelle relazioni indisciplinate tra il meta-feticismo, che va oltre il suo significato storico segnato dal colonialismo (fetiço è termine portoghese che nasce dalla conquista coloniale), da Marx, Freud e dal senso comune vigente; e la meta-morfosi che tradizionalmente manifesta il desiderio del mutamento identitario e formale.

Ubiquo

Il concetto di ubiquità ha una storia precedente e forse più complessa di utopia e, per la loro affinità divergente, ho pensato di connettere i due termini.

All’ubiquità che scorre in ogni luogo si aggiunge l’utopia che, invece, giace in nessun luogo. Nello scarto transitivo tra queste due proposizioni apparentemente aporetiche, si muove l’utopia ubiqua contemporanea.

L’accezione attuale del concetto di ubiquo è immersa nei flussi della cultura digitale, così – se si digita ubiquity – esce una fantasmagoria infinita di siti. Il motivo è semplice: tale termine identifica il modus operandi nella web-cultura. Un’affermazione condivisa è che il web é ubiquo e che il soggetto che lo usa assorbe l´ubiquitá comunicazionale delle pratiche spazio-temporali di Internet.

Nell’accezione teologica medioevale, il concetto di ubiquo è metafisico ed esprime una opposizione radicale al dualismo e, per così dire, persino al due.

Ubiquo incarna la radicalità onnipresente dell’Uno.

Tale autonomia spaziale deriva dall´essere – l´ubiquitá – una condizione astratta legata misticamente a un essere divino. L’ubiquo non é un risultato dell´esperienza empirica nella vita quotidiana come il simultaneo; al contrario, esso appartiene alla percezione visionaria dell’invisibile in cui la condizione umana è costantemente osservata dallo sguardo divino. Da tale occhio ubiquo non si sfugge, neanche nascondendosi in un posto segreto, in quanto “l’essere” ubiquo ti raggiunge sempre e ovunque, ti osserva e giudica in quanto ti trascende.

Nella contemporaneità, l’ubiquo muta di senso.

Esso si svolge nell’immanenza logico-sensoriale a carattere material/immateriale; eppure l’immanenza ubiqua continua ad esprimere tensioni oltre il dualismo, cioè quel sentire semplificato della condizione umana in cui le opposizioni binarie sono funzionali a ricondurre la complessità quotidiana dentro il dominio dicotomico della ratio.

Le coordinate spazio-temporali diventano tendenzialmente superflue e si espande un tipo di esperienza soggettiva ubiqua. Il me ricercatore si colloca in tale situazione di ubiquitá immerso nella propria esperienza personale e nella relazione istantanea con l´altro; e questo altro è altrettanto ubiquo, nel senso che vive laddove sta in quel momento attivo il suo sistema comunicazionale digitalizzato. Tale esperienza non significa smaterializzazione dei rapporti interpersonali; attesta una complessa rete psico-corporea, connessioni ottiche e manuali, sicuramente cerebrali e immaginarie che spostano l´esperienza del soggetto anche nell´apparente immobilitá. Gli evidenti risvolti psicologici necessiterebbero una ricerca specifica, insieme a un’auto-ricerca da parte del soggetto-etnografo che sperimenta su se stesso queste accelerate mutazioni. Il concetto di multividuo si manifesta appieno in tali connessioni ubique. L´etnografia ubiqua espande multividualità connettive. Sono trame che connetteno frammenti di spazi/tempi privi di quella identificazione determinata “normale” e che moltiplicano identità/identificazioni temporanee. Il soggetto dell´esperienza etnografica ubiqua é multividuale.

L’utopia ubiqua è incontrollabile. È fuori del controllo politico verticale, della razionalità mono-logica, di ogni determinazione lineare spazio-temporale.

In questa prospettiva, è possibile strappare la matrice (indebita) di quello che è definito dio e di conseguenza l’elaborarazione di visioni ubique pratica quelle invenzioni umaniste che si muovono oltre la fissità identitaria delle cose e dell´umano che, per tale qualità oltrepassante, offre visioni poetiche-politiche illimitate.

Accanto alla genealogia dell’utopia si muove l’ubiquità etnografica che richiede di essere precisata.

La mia identitá quotidiana (non solo in quanto di ricercatore) non rimane identica a se stessa, in quanto svolge contemporaneamente relazioni diagonali che usano differenziate espressioni metodologiche in diverse zone, sempre meno caratterizzate geograficamente e sempre piú soggettivamente. Tale identitá è piú flessibile rispetto al passato industrialista, è un’identità in parte mutante adagiata su una zattera instabile, che oscilla tra soggetti/contesti diversi nello stesso frame.

Utopia ubiqua è potenzialitá della fantasia esatta che si congiunge con la tecnologia digitale.

Sintomi

Il soggetto dell’ubiquità utopica non sta nella bibliografia degli ideologues, bensí tra i soggetti attivi della creatività: in primo luogo tra alcuni architetti che sentono il pulsare del mutamento e lo indirizzano verso composizioni inedite. Zaha Hadid é una di queste fonti pulsanti. Lei è una filosofa espansa che inventa scenari presenti/futuri. E necessario saper interrogare le sue opere, osservarle e parteciparle, dialogare con ogni dettaglio espresso dalle sue forme dispari, leggere le sue interviste o dichiarazioni di stile, indirizzare sensibilità ottiche verso le sue opere che spezzano l´ordine delle frasi geografiche euclidee.

Le arti e le scienze umane pretendono opere performative. Un’etnografia performatica dirige una attenzione ubiqua per questa antropologa dell´architettura che anticipa e plasma nuove sensorialitá trans-urbane. É lei la filosofa del contemporaneo che dispiega il presente-futuro, prima e meglio dei classici autori citati per ogni evenienza. L’architetta anglo-irachena Zaha Adid sostiene in una intervista che la composizione diagonale ha costituito l’inizio del suo design:

“The diagonal created the idea of the explosion reforming space. That was an important discovery” (in Jodidio, 2012:20).

Secondo Nicolai Ouroussoff, l’ispirazione e le pratiche vengono individuate nelle prime esperienze creative:
“The early graphic work of Zaha Adid may well have anticipated the computer revolution that has allowed her office to now design very complex structure. I think the design method can be considerate the precursor of computing”, affirms Hadid (…). So through her composition of digital world “we see a proliferation of natural morphologies and entities that might be imagined as a living creature” (pp. 14-18).

Se una architetta riesce a produrre la morfogenesi di creature viventi nelle sue opera significa che una delle manifestazioni più radicali dell’utopia – mescolare le relazioni tra organico e inorganico, tra natura e cultura, praticando la morte per consunzione della dialettica otto-novecentesca e della sintesi – si dispiega nell’ubiquità. Le sue opere, infatti, sono contestuali in parte, ma nelle tensioni più significative possono svilupparsi in gran parte dei territori, cui è strappata la condanna all’identità immobilizzante di molte regole urbanistiche egemoniche ancora in alcune città europee, in particolare italiane. Per questo i lavori di Hadid Zahad illustrano l’emergere di una cultura post-euclidea. Le fantasie esatte da lei elaborate attraverso il digitale non appartengono alle quotidiane esperienze geometriche non solo dell’Occidente. Lei applica “a hybrid self-generative multi-dimension in architectural diagonal forms that have never existed before and that are not based on classical Euclidean geometry, composed of square, circle, etc.” (ibidem). L’esperienza visual e estetica – direi politica in un senso ampio – delle forme generative post-euclidee non coinvolgono solo geometrie, ma, appunto, la logica. Una logica sensibile espansa. Così, Zahad crea esperienze metropolitane innovative, sfida il nostro sguardo abituato a vedere come familiari e quindi normali solo edifici rettangulari, rotondi o piramidali attraverso il modernismo.

Per me Zaha Hadid non è solo architetta: è anche antropologa e filosofa attraverso moduli che lei definisce generative ones. Ovvero che genera “unprecedented forms”. Le sue entità sono immaginate “as a living creature”, attraverso il metodo dell’immaginazione esatta. In tal modo entriamo dentro prospettive molto più ampie al di là della sola architettura: se le sue opere sono generative e auto-morphic, significa per estensione che ogni immagine nella cultura digitale può essere auto-generativa (1).

Vorrei citare la sua costellazione concettuale determinante la prospettiva ubiqua:

“Hybridize, morph, de-territorialize, deform, iterate, nurbs, generative components, script rather than model” (Schumacher, 2008 – in Jodidio, 2012:8).

Cui vorrei aggiungere il concetto determinante di ‘symptoms of a repressed impurity’ che va nella direzione di una “eruptive, chthonic architecture” ovvero di una utopia ubiqua che si innesta nel prospettivismo sincretico (vedi Canevacci, 2013).
I sintomi impure sono un concetto-paradigma che penetra la storia sotterranea dell’Occidente, in quella cultura che ha eliminato o soppresso tutto ciò che è impuro, in quanto il processo di civilizzazione si è basato sui concetti di purezza, autenticità, origine. Allora il sintomo è l’eruzione imprevedibile di tale impura repressione: un sintomo che assume le forme più insospettate, strane, perturbanti e persino misteriche. L’ eruzione di un sintomo può avere tali aspetti bizzarri – e quindi mai e poi mai un aspetto regolare che riproduce un modello architettonico euclideo. Per questo, lei è una “post-Euclidean generative architect. Hadid has broken not only the post-Bauhaus aesthetic, but more significantly, the grid and the solid Euclidean” (25).

Se è necessario interpretare sintomi, allora è fondamentale affrontare diverse discipline o forse praticare l’indisciplina e in ogni caso non è possible ignorare la psicoanalisi. È noto che tanti artisti (non solo surrealisti) hanno trasformato i loro propri sintomi in fisionomie metamorfiche con un alto livello di feticismo estetico.

Zaha Hadid ha la capacità di osservare quello che ancora non esiste, ma che purtuttavia sta sempre più diventando presente in un un utopico-ubiquo cosmopolitanesimo: lei riesce a trasfigurare tali incerti sintomi in architetture diagonali extra-normative.

I sintomi sono eruzioni corporali (o psicologiche) devianti, risultato infiammato di problemi che una persona o una cultura non vuole osservare.

Spesso sono eruzioni cutanee o ossessioni comportamentali. Quasi come una terapia psico-architettonica, lei mette in discussion un problema fondamentale per ogni utopia ubiqua: liberare la repressione dell’impuro, su cui stigma secolari si sono sedimentati e così trasfigurare le eruzioni cutanee in una disturbante eruzione ctonica.

Difetti

Ora vorrei presentare Gaetano Pesce, un designer che attesta la transizione radicale dall’industrial design – dove l’oggetto era industrialmente replicabile all’infinito – al design personalizzato. Secondo la sua visione, per ciascuna persona è previsto un oggetto singolo, che a sua volta è individualizzato e se-movente: così esso (o meglio lui/lei) diventa più-che-oggetto, l’oltre-oggetto: un pezzo unico e, in quanto unico, incorpora la biografia del soggetto, di un io espanso.

Il suo concetto metodologico produttivo è il difetto. Nell’uso mutevole delle resine per elaborare il suo materiale e formare cose-ego si incontra “il fascino irresistibile dell’inatteso” (Dardi, 2014:16). Può sembrare paradossale, ma in tale filosofia l’unico risultato che ci si possa attendere è proprio quello del difetto.

“Se la serie è omologazione e ripetizione livellante, allora il difetto diviene unicità nella diversità: umanità (…). Il difetto è l’irripetibile che ci rende diversi da tutti. Il difetto è lo strumento per abbattere la purezza del tratto somatico o della pelle; e persino abbatte il diktat della filosofia del bello artistico (e morale) che troppo spesso ha limitato l’espressione” (17).

Il difetto è irripetibile e indisciplinato, nel senso che non rimane rinchiuso nel cerchio magico di una disciplina per diventare incomprensibile – ovvero sfida la logica della “comprensione” basata sull’dentità.

Si veda Pratt Chair o I Feltri, sedie del 1984 che collassano nel suo essere privo di struttura, corpo senza scheletro, dove la funzione pratica o dell’utile viene meno o la poltrona Up che concretizza polisemie inaspettate. Da qui il suo progetto Non Standard che importa il virus della differenziazione dentro le tipologie che nel design industriale sembravano inamovibili. Altro esempio noto sono le calzature Melissa, dove la scarpa vive l’imprevedibilità basata sulla libera interpretazione e mutazione dell’utente, che può togliere o inserire diverse piccole bolle secondo il proprio estro: per cui la tipologia finale della scarpa è sfidata in quanto è tutta da inventare. L’antropomorfismo è un altro stile determinante: armadi, lampade, tappeti, sedie prendono forme umane, quesi fosse ogni oggetto il ritratto di una persona o viceversa. La relazione con la meta-morfosi e il meta-feticismo pare chiarissima in tali esempi, dove tutto transita tra esseri diversi. L’ideologia comunitaria è messa in discussione come politica e come estetica.

Dice Pesce:

“Non è più il tempo della coerenza, si deve seguire la realtà. Che non è coerente per niente” . E ancora: “La specializzazione ci porta alla solitudine. Mentre la conoscenza orizzontale ci dà la possibilità di essere in contatto con molti campi della conoscenza” (27).

La produzione diversificata all’interno del processo industriale deve fondarsi sulla peculiarità dell’esperienza soggettiva e sul pluralismo della società contemporanea. In conclusione Gaetano Pesce ha anticipato già negli anni vivi della pop art il principio della personalizzazione del prodotto artistico. In questo senso, pur lavorando nella stessa fase storica di Warhol, il designer sta fuori non solo dal paradigma seriale della pop art ma anche della riproducibilità benjaminiana. Una costellazione composta da variabili aperte, autoproduzione degli oggetti, la distinzione del difetto, l’incidente espressivo, l’eccezione, lo scarto. Il tempo delle copie è tramontato. Il design non produce più copie, bensì originali. Identità plurali. Auratiche.

“Mentre Warhol concepisce le sue opere come lo specchio di una società che vede nella produzione seriale omologata il principale motore di ricchezza, di conseguenza trasferisce l’oggetto d’arte nel processo seriale, Pesce estrapola l’oggetto d’uso dalla produzione in serie omologata per dargli il carattere di unicità” (Mercurio, 2014:34)

La citazione messa all’inizio del capitolo esprime la visione di una antropologia-non-antropocentrica, dove gli oggetti – resi schiavi come tanti esseri umani – diventano liberi di assumere la propria forma. Così la personalizzazione della serie esce dalla serie e si dirige verso l’auto-costruzione multividuale. Gaetano Pesce usa nuove tecnologie per il suo design indisciplinato e individualizzato. La cultura digitale e la centralità dell’auto-rappresentazione si estende dagli umani agli oggetti, entrambi costitutivi in quanto esseri che hanno il diritto alla bellezza e alla loro singolarità soggettiva. L’innovazione è per lui determinata da linguaggio, tecnologia e materiali. Il risultato è una espansione del sincretismo difettoso grazie alla sua interconnessione con un meta-feticismo magnifico, molto più chiaro di tanta filosofia o antropologia, attraverso cui vivifica le cose e le rende partecipe del processo di trasformazione meta-morfico. Percepire le connessioni tra i sintomi impuri di Zaha Hadid e il difetto auto-costruttivo di Gaetano Pesce significa inoltrarsi negli spazi dell’utopia ubiqua.

Auto-rappresentazioni

Fin dal 1930, Sigfrid Kracauer ha focalizzato tale questione: “self-representation of the masses subject to the process of mechanization, that is, the conditions of possibility for a democratic culture” (Kracauer, 1995: 75-86; vedi anche Bratu Hansen, 2012:40).

La seconda rivoluzione industriale impressa da fordismo e taylorismo favorirono comportamenti nella vita di tutti I giorni e ancor più nel nascente “entertainment”, dove le persone – in particolare quelle abitanti nelle cità – furono spinte a manifestare per la prima volta la possibilità di rappresentare se stessi usando (o essendo usati da) i nascenti mass media. Kracauer analizza il caso delle Triller Girls come una danza emergente basata sul sistema di produzione capitalistico applicato al pubblico occidentale, dove lo stile della linea di montaggio è incorporato dalle ballerine. Secondo lui, giàà allora si manifestò una contraddizione dialettica tra il desiderio di “self-representation” dei media nascenti e il processo meccanico basato sulla “de-individualization”.

Allo stesso tempo, “Adorno’s notion of radio physiognomy is stressing that ubiquity is unique to the medium and distinguish radio to the other forms of communication” (Jenneman, 2007:413). Tornando a Zaha Adid e Gaetano Pesce, è possible applicare i concetti di auto-rappresentazione digitale e fisiognomica ubiqua nella creatività del non-essere-ancora. A mio vedere, ovviamente i social networks hanno un differente tipo di fisiognomica rispetto alla radio: una fisiognomica digitale e fluida simultaneamente diffusa negli schermi di lap top, cell phone, tablet ecc. Tale ambivalente caratteristica può essere interpretata e forse trasformata attraverso lo stupore metodologico applicato al meta-feticismo e all’auto-rappresentazione ubiqua.

La rivoluzione digitale, la crisi dei mass media, l’emergere di una nuova individualità (multividuo) può offrire una radicale e differente sfida in una prospettiva politica che penetra le connessioni tra auto-rappresentazione e tecnologie.

“The question of ‘Who represents who?’ takes up Marx’s criticism of the division of labor. The current accelerated digital-industrial context has producing a different kind of ‘division’: a division between those who communicate and those who are communicated; between those who historically have the power of narration and those who are in the lonely state of being narrated” (Canevacci, 2013:32).

A partire dagli anni ’90, le mie ricerche hanno avuto come posizionamento tentare di affermare la sfida dell’antropologia contemporanea attraverso la tensione polifonica, la dialogica sincretica e il conflitto comunicazionale tra etero e auto-rappresentazione. Ricerche, posizionamenti e sfide verranno affrontati e risolti di volta in volta secondo procedure non più unificate bensì decentrate, multiple, alterate. Le procedure metodologiche secondo cui tradizionalmente l’antropologo/a rappresentava l’altro con le sue logiche esterne, con scritture o fotografie aliene, con le sue autorità discutibili si sono – se non esaurite – almeno attenuate. Questo transito sta avvenendo sia sotto le spinte post-coloniali, che hanno denunciato un persistente contesto politico-culturale mondiale che impediva la realizzazione sociale di questo “dopo” che sembrava non arrivare mai; e sia grazie all’affermarsi, anche se minoritaria, di una nuova antropologia critica oltre il monologismo imperante. In conseguenza di ciò, appare evidente che il “chi ha il potere di rappresentare chi” sta diventando un nodo centrale che si aggroviglia sul dominio “scientifico” che una parte maggioritaria dell’Occidente continua ad esercitare verso e contro l’altro.

Il citato problema su “chi-rappresenta-chi” in tutti i risvolti di potere riprende e amplia la critica sulla divisione del lavoro così come Marx l’aveva presentata, rendendo insufficienti le letture otto-novecentesche basate sulla centralità strutturale di stratificazione sociale e processi produttivi. L’attuale fase post-industriale e l’accelerazione delle culture digitali, infatti, includono ulteriori “divisioni” tra soggetti appartenenti a culture ed esperienze diverse, per es. la divisione tra chi comunica e chi è “comunicato”, tra chi ha storicamente il potere di narrare e chi sta nella sola condizione di essere un oggetto narrato. È diventata insufficiente persino la classica vocazione dell’antropologia a “cogliere il punto di vista nativo”, che può mantenere una parziale legittimità solo in quanto questo stesso nativo – individualizzato e differenziato – comunica il proprio punto di vista.

Per cui tra “chi-rappresenta” e “chi-è-rappresentato” vi è un nodo linguistico specifico, relativo a quella che chiamo divisione comunicazionale del lavoro, che va affrontata nei metodi e nelle pragmatiche.

Tra chi ha il potere di inquadrare l’altro e chi dovrebbe continuare ad essere inquadrato – per essere un eterno panorama umano – si è ossificata una gerarchia della visione che è parte di una logica dominante da mettere in crisi nella sua presunta oggettività. La divisione di. È insopportabile – politicamente ed etnograficamente – che nella comunicazione digitale si riproponga un neo-colonialismo mediale con una divisione gerarchica tra chi rappresenta e chi è rappresentato, tra chi filma e chi è filmato, chi narra e chi è narrato, chi inquadra e chi è inquadrato.

Le nuove soggettività che stanno affermandosi come “altre”- hanno il vantaggio di poter usare le tecnologie digitali che favoriscono questo decentramento con un effetto dirompente non paragonabile con quello analogico. Facilità di uso, abbassamento dei prezzi, accelerazione dei linguaggi, decentramento di ideazione, editing, consumo. La divisione comunicazionale del lavoro tra chi narra e chi è narrato – tra auto ed etero-rappresentazione – penetra dentro la contraddizione emergente tra produzione delle tecnologie digitali (legate ai centri del potere occidentale) e uso di queste stesse tecnologie da parte di soggetti con una autonoma visione del mondo. Tale divisione e tale contraddizione ridefiniscono lo scenario di potere dentro il quale l’antropologia della comunicazione digitale si dispone per confliggere contro e oltre ogni persistente tentativo di appiattire e folklorizzare l’altro.

Nella antropologia e nella architettura, nella comunicazione digitale e nella politica comunicazionale, il ricercatore è legittimato a interpretare l’altro solo in quanto è disponibile a farsi interpretare dall’altro. Questa è la dialogica utopica e la sfida ubiqua verso una transitiva epistemologia della rappresentazione.

Diasporici

Il termine diaspora è abbinato alle disseminazioni di vari popoli nel mondo.

La storia del popolo ebraico è legata a tale concetto, per cui a lungo i due termini sono stati associati quasi genealogicamente. Un’altra diaspora è segnata dall’imposizione della schiavitù, che le popolazioni africane hanno subito disperdendosi nelle grandi piantagioni delle Americhe, fino ad arrivare nelle periferie urbane (quilombos). Le diaspore palestinesi, curde, maghrebine, asiatiche hanno coinvolto gruppi di persone appartenenti a differenti scenari politico-culturali che si spostano ovunque si prospettino possibilità di vita diverse. Nei tempi recenti, tale termine indica le migrazioni dei latinos verso gli Stati Uniti che diventano diaspore quando il loro numero diventa significativo. Infine, la diaspora si avvicina all’esilio: della prima si mette in risalto la dimensione collettiva dello sradicamento territoriale, del secondo il carattere individuale legato a motivi tra i più diversi. Diaspora, migrazione, esilio sono processi storico-culturali affini e diversi, che coabitano e trasferiscono l’una nell’altro.

La diaspora classica è caratterizzata da alcune prospettive: esperienze di comunità di minoranze espatriate – distaccate da un centro originario – con una memoria della terra d’origine – senza sentirsi mai pienamente accettate nel paese ospitante – con il progetto di un ritorno alla terra degli antenati – con una solidarietà di gruppo che produce una forte identità collettiva. Accanto e oltre tale modello si è messo in moto un processo di mobilità transnazionale dalla composizione molteplice (espatriati per piacere, insoddisfatti nazionali, lavoratori flessibili, esiliati senza politica, artisti emergenti, inventori digitali, artisti vagabondi, cercatori di esperienze, di successi, di storie ecc.), attraverso cui si vanno affacciando ben diversi soggetti diasporici fuori da ogni tipologia, non più segnati dallo sradicamento violento e neanche dall’alienazione collettiva dalla propria patria. L’insieme di tali attraversamenti diasporici (quelli di minoranze fuggitive e di individui erranti) sovverte le regole giuridiche e politiche su cui si sono basati gli stati nazionali. Il concetto di cittadinanza è sfidato da questi soggetti diasporici, per cui gli stati e i comuni hanno difficoltà a dare soluzione politica a questi flussi.

Le identità-diasporiche esprimono sfide e irregolarità rispetto sia all’ordine amministrativo statuale ospite.

Spesso le forme linguistiche o artistiche di queste sfide esprimo miscele sincretiche e, ovviamente, ubique. Allontanarsi dalle proprie origini, da una iniziale identità e da una cultura essa legata; avventure nello sconosciuto e nel rischio di modificare la propria sensibilità; avere identità diverse, sovrapporre la vecchia alle nuove, sentire l’espansione del proprio sé. La vaga consapevolezza che la perdita può essere generatrice di speranza. Che attraversare contesti stranieri non favorisce solo la nostalgia arcaica, nè l’immobilità familistica e neanche la banale assimilazione al nuovo.

Tali diaspore irregolari rompono la stringente alleanza che l’Occidente ha saputo produrre tra umanesimo universalista e nazionalismo statale: tra l’Illuminismo che proclama l’uguaglianza degli esseri umani e gli illuministi che perseguitano questi stessi esseri umani nelle loro colonie. La soggettività diasporica si inserisce negli interstizi di questa morsa per sgusciare e liberare modalità autoaffermative che intaccano il potere immobilista del localismo e quello omologante del globalismo. Per questo è importante cogliere queste diaspore soggettive, diverse dallo sradicamento violento dal territorio proprio della diaspora collettiva. Favorire una cesura dalla diaspora tradizionale e liberarla dal peso doloroso dell’origine per sprigionare il senso disseminato delle molteplicità. Transitare dalla diaspora connessa alle sofferenze etno-storiche alle diaspore produttrici di esperienze soggettive. La prospettiva dei nuovi sincretismi si basa su quest’ultima concezione delle diaspore, quelle individuali non legate alle forzose migrazioni, alla deterritorializzazione come sottrazione, bensì a una soggettività eteronoma che sperimenta lo scorrere potenziale delle proprie pluralità.

Soggettività e identità diasporiche sono esperienze concrete e fluide a disposizione di ciascun multividuo contemporaneo.

Ciò che confligge contro dualismo e universalismo è la molteplicità identitaria del soggetto che decide di sperimentarsi diasporicamente. Un transito pluricentrico dalla diaspora coatta-collettiva alle vaganti diaspore soggettive. Le diaspore non sono né una prospettiva normativa che vincola, impone o perfino suggerisce, né un’allegoria che evoca sentieri ibridi. Su tale punto è importante la ricerca condotta da Paul Gilroy sulla diaspora africana vista non più – come normalmente si continua a presentare – come un residuo medioevale. Secondo lui, il viaggio delle navi negriere contiene – all’interno delle sue stive cariche di persone in condizione di schiavitù – “un sistema vivo micropolitico e microculturale in movimento” (Gilroy, 2003:51), che costituisce una delle più straordinarie anticipazioni della modernità: “Possiamo vedere l’Atlantico Nero dipanarsi in teorie della cultura della diaspora e della memoria della dispersione, dell’identità e della differenza (…). La contaminazione liquida del mare comportava sia la mescolanza che il movimento”(19-33).

L’esperienza del transito, delle mescolanze impure, dei sincretismi religiosi, spaziali e culturali, delle ricombinazioni sorprendenti, di stili, codici, modelli insubordinati, si compie grazie alle diaspore africane che attraccano nelle sponde dell’Atlantico e le trasformeranno – più che in nero – in una molteplicità di sfumature cromatiche e identitarie, culturali e comunicazionali, erotiche e filosofiche che anticiperanno la contemporaneità.

Il soggetto diasporico non è più il migrante caratterizzato dalla penuria, dalla ricerca di un lavoro qualsiasi, nè dal violento sradicamento collettivo; non reinventa nostalgicamente una cultura locale che non esisteva nella sua vita d’origine e che non lo realizzava. Non folklorizza se stesso.

Il soggetto diasporico esprime una tendenza di una minoranza non minoritaria che fuoriesce dal suo mondo locale, che vuole conoscere e attraversare culture diverse e, insieme, se stesso. Il soggetto diasporico manifesta l’insorgenza di una cittadinanza transitiva, non legata a uno Stato-nazione o a un passaporto, bensì immanente al suo essere umano.

Umanità che muove. Cittadinanza transitiva e umanista che sfida il diritto globale; il cittadino soggetto di diritti è diasporico e, in questo senso, transurbano: è un cittadino che crea trans-urbanesimo.

La cittadinanza diasporica si può connettere all’arte in senso esteso.

Molte invenzioni appassionanti esteticamente – che si affermano nell’ambito delle musiche, le mode, i design, i web, gli stili e via così – sono diasporiche. Sicuramente ubique. Forse anche utopiche

Meta-feticisti

Ora confesso la mia utopia ubíqua. La mia ipotesi immagina una genealogia antropologica del feticismo tentando di verificare se è possibile affermare e praticare un meta-feticismo oltre il dominio politico o le deviazioni stigmatizzanti incorporadte nel corso delle varie stratificazioni storiche. In questo senso, la prospettiva del meta-feticismo può favorire un re-enacting desiderante e mutante com il suo doppio: la meta-morfosi.

Il problema del feticismo è crescente, in particolare per la sua interconnessione con la cultura digitale che sta causando una proliferazione di feticci visuali più differenziati. Tutto ciò significa che un nuovo e preoccupante paradigma coinvolge e trasforma questo concetto. La mia riflessione affronta la tradizione coloniale in cui è nato il concetto, lo sviluppo di Marx per quanto riguarda le merci e l’applicazione di Freud alle perversioni sessuali. Tutto questo sembra radicalmente inadeguato. Ulteriormente il senso “comune”, riproduce le spiegazioni nei vocabolari, in cui il feticismo è ancora percepito e definito come qualcosa di magico, irrazionale, primitivo.

I feticismi visuali – material / immateriali – sviluppano un approccio pragmatico al di là del dualismo classico e della stessa dialettica; “Lui” (il feticismo) può liberare le incrostazioni collegate a reificazione, alienazione, perversione, senso comune. “Lui” incorpora tendenzialmente – anche se mescolato col dominio – un desiderio disturbato e parzialmente deviato quanto diffuso nelle diverse culture e in diversi modi: affrontare le relazioni organico/inorganico, corpo/merce, occhi/schermo, carne/ tecnologia – forse anche vita/morte – nelle manifestazioni mitiche, sacre o artistiche che animano quello che sembra cosa morta.

Il feticismo collega, incrocia e mescola reificazioni e pietrificazioni, storie e miti, tempo e spazi. Sta all’interno del corpo del capitalismo e nei corpi trans-culturali mitologici che vivono nella vita quotidiana contemporanea. Feticismo anima non solo merci e reifica contestualmente lavoratori: “lui” vivifica quello che è fisso, un oggetto, una cosa o una immagine. Pertanto, i feticismi visuali sono determinati dal concetto di fatticità, un concetto sensoriale in cui viaggiano – con tensioni ibride – cose, oggetti, merci, pixel.

Nella mia prospettiva, il feticismo in generale – e in particolare le nuove forme di feticismi digitali – esprime una tendenza oltre il paradigma dualistico. Di conseguenza, incorpora un oltre, cioè il meta-feticismo che a sua volta è collegato con altro concetto complesso praticato in modi diversi in molte culture: la meta-morfosi.

La mia ipotesi è chiara: il crescente incrocio tra meta-feticismo e meta-morfosi è desiderato e praticato attraverso l’espansione dei sincretismi culturali. Questo mix compulsivo di codici, stili, comportamenti, arti, moda disegna scenari che stanno diventando fondamentali nelle culture e nelle politiche contemporanee. A volte, i frammenti di liberazione sono percepiti con indifferenza passiva o regressioni violente; quello che è chiaro osservando i siti fondamentalisti (nella religione, politica o nello sport). Qui vorrei sostenere il potenziale utopico oltre incorporato nelle reificazioni contemporanee, ben diverse da quelle industrialiste. E la direzione è un sincretico aurorale meta-feticismo.

Il feticcio è un concetto di matrice coloniale che nasconde un desiderio oscuro/luminoso che i portoghesi hanno cercato di rinchiudere in una regressione primitivista e animista, senza storia e senza teologia. Animismo come anima secondaria e inferiore. Anima degenerata o meno sviluppata. Il potenziale insito nel feticismo aspira al desiderio di relazionarsi e cercare di risolvere le differenze tra ciò che è morto e ciò che è vivo (body-corpse), tra sacro e quotidiano, sesso e erotica, lavoro e arte. In conclusione, il feticismo incorpora il desiderio di capire e di vivificare frammenti di culture al di là del dualismo concettuale, di paradigmi dicotomici o della dialettica sintetica: “Lui” è filosofia pragmatica e perturbativa che capisce il rapporto tra reificazione e pietrificazione, tra mito e ragione. E la risolve o la dissolve.

Chiamo meta-fetichismo questa costellazione vagante sincretica.

In esso, sopravvivono desideri interculturali, speranze politiche, performance marginali, deviazioni sotterranei che fluttuano, si differenziano e mescolano culture diverse. L’immaginazione esatta del meta-feticismo esplora una antropologia non antropocentrica. Dove cose, merci, oggetti (le fatticità) sono liberati dalla sentenza di essere utili o morti. I meta-feticismi si intersecano con le meta-morfosi e – così sincretizzati – affermano il potenziale utopico e ubiquo di sovvertire lo “stato delle cose”: perché le cose sono material/ immateriali e non hanno stato, ma movimento. Le cose sono esseri transitivi.

Il feticcio è um oggetto oltre se stesso: un soggetto che anima l’inanimato. E che apreverso storie utopiche attraversando o stupore ubiquo della fatticità… Il feticismo attende la sua liberazione: questa la mia utopia ubiqua.

Finale utopico-ubiquo classico

Per concludere con una metodologia utopica, vorrei focalizzare Kairos, dio greco del “momento passaggero”, che coglie un’opportunità favorevole che oppone il fato all’umano. Tale momento deve essere afferrato nel ciuffo di capelli sulla fronte della figura fuggente, altrimenti il momento va via e non può essere ripreso: per questo, la parte posteriore della sua testa è calva. L’immagine dei capelli sulla fronte e della nuca calva era associata dai romani alla dea Fortuna. Sulla statua di Kairos fatta da Lisippo era scolpito il seguente epigramma di Posidippo:

“E chi sei tu? – Il Tempo che controlla tutte le cose.
Perché ti mantieni sulla punta dei piedi? – Io non corro mai.
E perché hai un paio di ali sui tuoi piedi? – Io volo con il vento.
E perché hai dei capelli davanti al viso? – Per colui che mi incontra per prendermi per il ciuffo.
E perché, in nome del cielo, hai la parte posteriore della testa calva? Perché nessuno mi afferra da dietro”.

La proposta verso un’etnografia indisciplinata, impura e diasporica si muove verso un’utopia ubiqua che va in questa direzione diagonale: afferrare il ciuffo frontale di Kairos, senza aspettare nell’immobilità realista.

Note

1. La questione è complessa e non può essere riassunta in una nota, ma vorrei sottolineare che anche le azioni dell’ISIS hanno una componente utopica-ubiqua così evidente. Tutte le loro azioni mescolano operazioni militari e video attraverso una eccezionale capacità di usare la comunicazione digitale come strumento di guerra. L’iconoclastia estrema da loro diffusa nel web e grazie al web è un esempio della complessità delle utopie ubique che non sono (e da tempo!) solo caratterizzabili in senso progressivo.

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